Il deserto è il punto di dispersione di ogni logica.
È il luogo dove bisogna abbandonarsi a qualcuno, affidarsi alla sua magnanimità e sperare.
Sperare che tutto vada bene, che non vi siano imprevisti e che nel caso in cui arrivino, siano affrontabili. Non c’è logica nelle persone che vivono nel deserto; in chi impiega la sua giornata all’ombra del nulla, con accanto solo terra, sabbia, acacie.
Ci recheremo nel deserto dell’Alta Guajira, a Punta Gallinas, il posto più a nord dell’intera Colombia.
Il viaggio inizia superando Riohacha, Quatro Vias e Uribia, degli avamposti del disagio palpabile, dei buchi di culo del mondo, a voler essere onesti.
Arrivati ad Uribia, conosciamo la nostra guida e il suo socio: Mikeli con la i e Jonas.
Mikeli con la i, è un Will Smith nato erroneamente a qualche chilometro di distanza da Philadelphia. Parla al telefono, prende ordinazioni per altri viaggi, legge su w.app pareri di meccanici e di tanto in tanto, guida. Ha anche un millepiedi in peluche sopra il cruscotto della macchina, perché senza millepiedi in peluche, nel deserto, non sei nessuno.
Jonas invece è un navigatore umano. Indiano wayuu messosi in affari col buon Mikeli, oltre a parlare uno spagnolo monotòno e bere senza remore taniche d’acqua destinate al radiatore, indica la strada per la salvezza collettiva, basandosi sulle orme lasciate dai precedenti fuoristrada.
La prima cosa di cui non ci si riesce a capacitare è il senso dell’orientamento.
I due scout improbabili di cui sopra cambiano improvvisamente i percorsi, scoprendo tracce inesistenti per un occhio abituato a pagare tickets mensili di trasporti urbani. Roba che osservandoli nel loro incedere automobilistico ti senti di stare con Tex Willer e Kit Carson.

Il viaggio, in generale, non inizia molto bene, considerando che dopo solo venti chilometri di deserto si rompe la macchina del buon Mikeli con la i.
Ad onor del vero, rompere la macchina (el carro) su questa strada non è molto difficile. È come entrare in un negozio di salumi e uscirne con un panino in mano. La rottura del cambio del carro però si rivela una fortunata disgrazia. È la giusta occasione che ci permette di: entrare in una tipica casa Wayuu, osservare donne dalle rughe carsiche produrre borse e amache (prodotti tipici artigianali) e il buon Micheli che prova ad aggiustare la macchina, con una temperatura esterna di quarantaquattro gradi.
Piccola parentesi storica: gli indiani wayuu, di cui Jonas è un fiero esponente, sono gli unici inquilini del deserto dell’Alta Guajira e molti anni orsono, sono stati l’unica popolazione a non venire assoggettata dal conquistadores spagnolo.
Piccola deduzione: grazie al cazzo. Neanche io, se fossi stato un conquistadores spagnolo, sarei andato fin li per conquistare una terra desertica, calda ma dai paesaggi incantati.


Ripreso possesso di un carro, portato in fretta e furia da un collega di Micheli con la i, il viaggio riprende e il gioco inizia a presentarsi su un livello di difficoltà superiore.
Una delle angustie maggiori viene rappresentata dalla musica. Oltre ad essere in 7, in una macchina, nel deserto, alle 2 di pomeriggio, con quarantasei gradi, ci rifacciamo alle scelte musicali del conducente, assiduo ascoltatore di Radio Dolphin. Questa emittente guajira rappresenta l’anticamera dell’inferno dell’apparato acustico. Un orrore talmente prolungato e acuto che i passeggeri della macchina arriveranno a reputare “gradevoli” pezzi come: “El hijo de la coca” e “La del mercado”. Provare, ed ascoltare, per credere (lo scibile della disperazione).
Come testimonia la guida cartacea però, una volta giunti a destinazione, quello che si mostra dinnanzi ai nostri occhi è quanto di più bello ci è mai capitato di osservare. Tramonti, paesaggi e aragoste a prezzi da Lidl. Quanto più una cosa è lontana e difficile da raggiungere, maggiori saranno le soddisfazioni nell’apprezzarla.


A discapito di quanto pianificato, passiamo solo una notte in uno dei villaggi Wayuu. L’indomani rischia di piovere (non piove in quel luogo da un anno e mezzo), il che implicherebbe rimanere bloccati nel villaggio per 5 giorni. E poi comunque, a parte il posto stupendo, non c’è davvero nulla di nulla. Sai com’è, sei nel bel mezzo del deserto…
Il viaggio di ritorno è meno traumatico dell’andata. Il prosciugarsi di alcune zone del fiume ci permette di fare un percorso meno accidentato, comunque gravato dalle inclementi note di Radio Dolphin.
Attraversando il deserto che si appresta a diventare una fornace, ci imbattiamo in 2 allegre carovane. La prima cerca di salvare un camioncino impantanato nel deserto da tre giorni. Diamo un po’ d’acqua e dei viveri, consapevoli che anche oggi, per loro, non sarà un giorno leggero. La seconda invece è composta da signore anziane, vestite da cerimonia. Si apprestano a presenziare ad un funerale di un indiano sparito in mare da tre giorni, che difficilmente farà ritorno a terra. I Wayuu danno un valore diverso alla morte. Per questo forse, oltre agli abiti da cerimonia, notiamo il camioncino funebre arredato da alcolici, pieni.
In questo viaggio di ritorno però, a salire in cattedra sarà il buon Jonas, che dopo aver approfittato, e aver gentilmente offerto, un po’ di Coca tenuta con agio nella tasca del pantalone, racconta al passeggero accanto a lui nell’ordine di: voler aprire un business finalizzato al trasporto di ovuli, di aver avuto una fidanza italiana, di essere nella zona un inguaribile sciupafemmine e che proverà a mantenere questa forte amicizia creatasi in queste ventiquattro ore. Della serie: con un po’ di cocaina nell’organismo il mondo diventa una calamita per storie e intenzioni fantasiose.
Salutando Mikeli con la i e Jonas e lasciando la Guajira per tornare a Bogotà, ci rendiamo conto di quanto il mondo sia diverso, di quanto la vita sia difficile e di come un’esperienza del genere non riusciremo mai più a scordarla. È banale, lo so. Ma è quanto di più intenso e significativo mi sia capitato negli ultimi vent’anni di vita.