Signor COVID-19: grazie degli spunti


Nonostante un’economia distrutta, degli squilibri emotivi di massa e una clausura globale, gradirei comunque ringraziare il signor Covid-19, vista la possibilità che mi ha dato di interrogarmi su 5 tematiche molto interessanti. Cercherò di elencarle tutte, ponendomi molte domande, ricevendo poche risposte.

1) LA MERCE
Partiamo da qui. Non era mai capitato ai ragazzi della nostra generazione, cresciuti nell’agio tardo capitalistico, di percepire delle lacune sul soddisfacimento di beni primari, come il cibo. Di sentirsi, come in questo periodo, minacciati sull’assenza della primissima necessità.

Come ad eccezioni di disastri naturali, io personalmente, non mi ero mai interrogato su come: fabbrica, merce, magazzini, trasporti, vendita e profitto fossero intrinsecamente connessi. E come l’assenza di un solo di questi tasselli mortificasse tutta l’impalcatura di produzione e benessere connesso.

Inoltre, quello che stiamo osservando nell’immediato è la supplenza (quando possibile) del digitale sul retail/fisico. Con una domanda implicita e costante: fino a che punto questa supplenza sarà sostenibile? Sarà necessaria una riconversione della forza lavoro? Sarà possibile assorbire tutta la domanda e convertire tutta l’offerta, tramite uno switch di canale, forzoso?

Le risposte che mi sento di dare a questa prima tranche di interrogativi è un sonoro: BOH! Questa Fase Uno prevede tante domande. Le risposte latitano. By the way, come direbbero gli amici del marketing, grazie signor Covid 19 per lo spunto.

2) LA VELOCITA’
No, non menzionerò le esaltazioni futuristiche della velocità del secolo scorso, né citerò anche solo per scherzo la purezza stilistica di Carl Lewis o l’etica del lavoro di Usain Bolt. Purtroppo.
Bensì esplicito, anche se già chiaro a tutti, che quello che sta facendo il signor COVID-19, in questo caso, è una crociata implicita sulla velocità. Sulla velocità a cui noi ci eravamo del tutto assuefatti.

È tutto più lento. È lenta la nostra vita (forzata in mura domestiche). E’ lento il riprendere della socialità (la quarantena per molti sta diventando fattuale, di 40 giorni).
Quello che personalmente mi chiedo, sorprendendomi per l’originalità della domanda, visti i tempi è:
a) sarà possibile riprendere la vita alla velocità a cui eravamo abituati?
b) se non proprio alla velocità di prima (2020) ed escludendo la velocita di “prima pima prima” (anni ‘50), sarà necessario ritornare alla velocità di “prima”, del 2010 ad esempio? La vita ai tempi dei trilli MSN Messanger?
c) Se no (come pochi si augurano) che impatto avrà questa riduzione sulla produzione della merce?
d) Se si: volemose bene! Problema risolto.

Può sembrare che sia ossessionato dal ruolo della merce, e forse lo sono. La mia però non vuole essere un’analisi e una visione marxita del problema. Credo però che merce (intesa anche come servizi), velocità e produzione, da settant’anni a questa parte, siano l’ossatura della nostra società.
Abbonatemi perciò il particolare focus sul tema.

3) L’INDIVIDUALISMO E LA COLLETTIVITA’
Anche in questo caso, siamo stati forgiati sul culto dell’individualità e sul valore delle libertà (astenersi ovviamente cittadini di regimi autoritari).

Non fa sorridere come la soluzione ai problemi collettivi, nell’era del signor Covid-19, potrà realizzarsi solo tramite un esercizio di azioni “collettive”? Restate a casa. Non solo io, non solo tu, non solo mio cugino: tutti. Se io, tu e mio cugino, continueranno ad anteporre le proprie partite di curling o le visite dall’otorinolaringoiatra per controlli di routine, tutti, la collettività, potrà riprendere la propria vita tra qualche anno, non tra qualche mese. Questa rivincita dell’obbligo collettivo sul predominio culturale dell’individualità, a me un po’ fa sorridere.

Anche l’espressione (e la comunicazione) dell’individualità sta patendo le angherie di una collettività imposta. Io, anche se tappato in casa, sono libero di fare torte, di fare yoga su Zoom, di fare allenamenti per gli addominali, di fare challenges. In maniera molto originale e in contemporanea con tutto il mondo. Distanti ma vicini, certo, ma ancor più: da soli ma insieme. Un’individualità talmente collettiva che si omologa e diventa collettiva.

E infine, nonostante il ruolo dell’individuo e il culto della libertà, cosa bramiamo maggiormente nelle nostre splendide casette isolate (e in maniera ancora maggiore adesso, con l’avvicinarsi delle feste pasquali)?
Vogliamo stare insieme. Diciamocelo. Non è peccato. Vogliamo sentirci meno soli. Perché siamo animali sociali. Siamo una somma di individualità che formano un collettivo. Volente o nolente.

Ah, io la cosa che bramo maggiormente è farmi un giro in bici, di sera, con la brezzolina primaverile. Ma questo è un altro discorso…

4) CITTA’ – STATO – NAZIONE
In merito ho sentito delle riflessioni interessanti da parte di qualche mente leggermente più scaltra della mia. Zizek, Baricco e Cacciari, solo per citarne tre.
Il dato che è emerso con maggiore forza, uno dei tanti, certo, è che il signor Covid-19 ha contribuito a fare in pezzi con una certa facilità è il concetto di confine. Il virus non ha guardato in faccia a bianchi e neri, a tesserati o non tesserati, a baresi o leccesi. Il virus è stato democratico. Ha avuto pensieri mortiferi per tutti. Senza alcuna distinzione. Mettendo in luce, ancora una volta, come le distinzioni di specie, razza e territorio, sono accomodamenti concettuali, a volte utilitaristici.
La sua essenza democratica e volatile ha messo in luce allo stesso tempo:
– l’impossibilità del non perseguire intenti ed accordi globali e attuarli su scala locale (se le nazioni avessero seguito il modello cinese (entità globale) probabilmente gli effetti su Codogno o le valli bergamasche (entità locali) sarebbero stati decisamente minori.
– l’impossibilità di privilegiare e coltivare solo gli aspetti positivi e e/o finanaziari del capitalismo, senza pensare che ricadute negative (sanitarie) possano essere figlie della stessa globalità.
Prendendo come esempio le mascherine (punto 1) bene merceologico cardine di questo periodo storico: se fossero state prodotte e smerciate su scala globale (punto 4) con una velocità necessaria all’occasione (punto 2), gli impatti sarebbero stati decisamente minori su tutti gli individui (punto 3).

E comunque, vista la ricorsività degli impatti del Signor Covid-19 su merce e produzione e velocità, mi inizio a chiedere se non sia proprio il modello capitalistico, fondato su questi due cardini, a dover essere un attimo ripensato.

5) FUTURO
Tra i beni di consumo più venduti, oltre al cibo, all’amuchina e le mascherine, le fonti ufficiali non rivelano il più strambo: le sfere di cristallo. Dopo averle acquistate, siamo tutti da settimane ad interrogarle, cercando di capire che tipo di futuro ci troveremo a vivere.
Quando torneremo ad avere una vita normale? Il virus ritornerà? Chi si è ammalato in questo periodo, potrà riammalarsi? Si potrà tornare a viaggiare? Si potranno rivivere senza patemi gli spazi sociali collettivi?
Mi piacerebbe poter dare una risposta netta ad ognuna di queste domande.
Considerando però che sui quattro punti precedenti non ho un quantitativo considerevole di risposte e che la sfera di cristallo non mi è ancora stata consegnata, temo dovremo aggiornarci tra qualche mese.

Se possibile, senza il signor Covid-19, che ci ha tanto aiutato a porci delle domande, senza dubbio, ma che allo stesso tempo, scusate il francesismo, ha rotto il ca**o.

Mi raccomando, fate i bravi e leggete questo articolo rigorosamente da casa.

Beppe Beppe Conte


Beppe, Beppe Conte
quanto sei potente?
Beppe, Beppe Conte
quanto sei clemente?
Quanto intelligente?
Quanto? Non fa niente…

Beppe, Beppe Conte
tu sei anche onniscente.
Curi i mari dalla plastica
lavi i muri dalla svastica
sulle arterie fai angioplastica
fai diritto a chi ne mastica.

Beppe, Beppe Conte
tu sconfiggi carestie
tu distruggi tirannie
piaci un sacco alle mie zie
alle donne delle pulizie.

Metti pace tra gli afghani
tra l’America e i cubani,
tra il Pd e i democristiani
che son sempre stati a pace…

Beppe, Beppe Conte
libera la mente
Beppe, Beppe Conte
culto incandescente, Padre Pio presente,
non mi hai fatto niente
faccia di serpente.

Beppe, Beppe Conte
voglio un tuo santino
sguardo birichino
occhi da bambino
caschetto divino.

Beppe, Beppe Conte
sei il nostro tenente
sfondi i muri col pensiero
tu sei il nostro condottiero
se ci doni all’uomo nero
stiam con lui anche un mese intero.

Con te i patti sono chiari
con te i giorni sono vari
con te i conti sono pari
con te insegna a noi scolari

Beppe Conte Beppe Conte e e
Beppe Conte noi crediamo in te te
chi non salta Beppe Conte e e
chi non salta Beppe Conte e e

Il pizzaiolo egiziano pasticcione e le fondamenta di una nuova Italia


Nur è un pizzaiolo. È un piazzaiolo pasticcione a voler essere precisi. Tanto le sue pizze son gustose, tanto lui fa i popocchi. Ha un telefono a muro anni ’60, a voler essere ottimisti, dal quale si presenta ai suoi potenziali avventori con un riconoscibilissimo: “Piiiiiiiiizzaaaaaaaa“.
Nur è un pizzaiolo pasticcione, egiziano. È in italia da una ventina d’anni, e negli strascichi delle vocali o negli intercambi fonetici tra un argomento e un altro mostra con orgoglio le sue origini lessicali e geografiche.

Ieri da Nur, il pizzaiolo pasticcione egiziano, c’era anche suo figlio. Piccino e dalla faccia sveglia, dava fastidio a tutti i clienti, chiedendo se volessero giocare a pallone con lui. Incassato il sì o no dagli stessi, iniziava a dare fastidio al padre. Toccava gli attrezzi, gli ingredienti, il forno. Il perfetto manuale del bambino cacacazzo. Nel mentre suo padre lo sgridava. Lo ammoniva. Gli intimava obblighi e divieti (del buon pizzaiolo pasticcione). Lui, da par sua, se ne fotteva bellamente.
Mentre Nur a fatica, non coadiuvato dal suo vice Aiman ( da pronunciare nella stessa maniera di “Pizza”, quindi “Aimaaaaaan“) faceva appetitose pizze pasticcione cercando di sbagliare più ingredienti possibili, suo figlio emulava freudianamente il padre e preparava pizze pasticcione mignon, cantando.

Per distrarlo ed evitare che il bambino entrasse nel forno, ad un certo punto Nur ha chiesto a suo figlio di farmi sentire per che squadra tenesse. Al che Nurrino ha distolto lo sguardo da un’improbabile Margherita con olive, sua nuova creazione, e mi ha detto con occhi eccitati:
– Io sono dell’Inter. E dell’Italia. Io tifo Inter e Italia– ponendo enfasi sulla seconda squadra del suo cuoricino da pizzaiolo in erba.
Forse per i troppi film francesi visti in rassegna o perché ho fatto Scienze Politiche, nel vedere la faccia gioiosa di Nurrino che tifava per l’Italia, io mi sono quasi commosso. Oggi, a Nurrino, dell’Egitto non gliene importa una minchietta. Anche se la legge non può riconoscerlo, Nurrino è italiano e tifa Italia (e Inter, purtroppo).

E ho dovuto nascondere il volto in un Tuttosport stagionato, quando Nurrino ha ripreso a cantare Fabri Fibra:
– Pronti, partenza, via. Si va con Mario Monti, pronti, si va con Mario Monti e via.
Nurrino è talmente italiano che a cinque anni canta Fabri Fibra e tifa Inter. Due amori discutibili ma incontrovertibilmente italiani.
Basta poco a renderti felice in una sala d’aspetto di una pizzeria. Nonostante l’Inter. E Fabri Fibra.
Dedico questo post a Calderoli e Cècile Kyenge; agli abitanti delle contrade di Siena che aspettano il palio per darsi le botte; a quelli che gli zingari rubano ma c’hanno il Mercedes; a chi è andato a Napoli e non è mai morto. A tutto il mondo che giustamente è paese, ma che dovrebbe aspirare a diventare mondo.

So càmon càmon du d locomoscion uit mì

Un radioso futuro di #sangueemmerda


Con lentissimi e sballottolati spasmi si sta arrivando a capire che la sinistra italiana, tradizionalmente intesa, è una categoria concettuale in via d’estinzione.
Da sempre perdente, fumosa, teorica. Purtroppo da sempre velleitaria ed astratta.
Un opaco collage contenutistico di Primo Maggio e rassegne indipendenti polacche.
Teoricamente meravigliosa. Praticamente inconcludente.
Come una coppia d’attacco Recoba-Vucinic.

L’emergere tellurico dell’ascendente Matteo Renzi, con la sua opera di pulizia dell’apparato gerentocratico della segreteria Pd, sta portando i suoi frutti.
È incerta a tutti, politici compresi, la sorte del primo (anche se di pochi voti) partito d’Italia. Ciò che emerge, netto e inopinabile, è l’evidente terrore del dopo. Del vuoto. Del vuoto del dopo.
– un omaggio a Ghezzi, e alle sue rassegnate rassegne polacche –
Visibile è la paura di un apparato destinato a perdere il potere. Che digrigna i denti, che tira la fune. Che come Anthony Hopkins non vuole lasciare il Bounty.
E tutto questo non a causa ma grazie a Renzi.

C’è una classe dirigente che si sta accorgendo di essere fuori da un mondo che ha vissuto, e del quale ha mangiato i migliori frutti; c’è una classe dirigente cieca, che egoisticamente non si accorge di aver fallito. Ripetutamente. Clamorosamente. Incontrovertibilmente.
C’è un governo che pattina nella merda. Ma lo fa con Rollerblade californiani.

Ci sono uomini e partiti di un Parlamento (che c’è ma che non c’è) che sono in realtà uomini di Partito. Di collegi. Di sezioni. Di logiche di scambio.
Che antepongono il personale al pubblico. Che difendono interessi. Che prendono tempo. Tanto di tempo ce n’è… Tanto le ruote dei Rollerblade si consumino lentamente… Tanto in Italia si sta bene. Si mangia, si scia e c’è il sole.
“Questa è vita disse il cacciavite”.

Negli insulti (tra e del) Pd c’è una speranza e una bozza di una rottura intestina. Di una rottura per certi versi provvidenziale. Dello scollamento e insabbiamento ideologico di quel terzo di italiani che in politica ha sempre perso. In modo quasi orgoglioso.
Ci si accusa e si lotta. Ci si discredita e ci si offende.
Come se la scelta di un Presidente della Repubblica fosse la scelta dei tavoli al matrimonio: quello sì, quello no. Quello a me quello a te. Quello e quell’altro non insieme, che allo scorso matrimonio  hanno litigato…

Matteo Renzi: aiutaci. Aiutaci a smembrare un partito. Aiutaci a smembrare un sistema. Aiutaci a dare una forma politica ad un paese che non vive di valori e proposte, ma di anti e pro Berlusconi.

Perchè saremo sfortunati, tristi e stagisti, ma non dovremmo credere che anche il futuro sarà
#sangueemmerda  

Schizzo_di_sangue